film TERRAFERMA

TERRAFERMA

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Emanuele Crialese si è imposto all’attenzione di critica e pubblico già al suo secondo film, quel «Respiro» che nel 2003 fece applaudire il Festival di Cannes, ambientato nella Lampedusa degli anni ’60. Poi con «Nuovomondo» l’ambizioso racconto del grande viaggio dei migranti siciliani verso l’America, la terra dell’abbondanza immaginata, si confermava come uno dei registi più interessanti nel panorama della penisola.

Sono passati cinque anni dalla sua ultima fatica e c’erano molte attese per un progetto che sembrava continuare il percorso di Crialese, con un’adesione molto più radicata all’attualità. Adesso il nuovo mondo è la (nostra) Terraferma: il film si ispira anche alla vera storia di Timnit T., alla quale il regista di origini siciliane ha chiesto di «reinterpretarla».

In un’isola siciliana sono rimaste poche anime, per lo più vecchi pescatori a riposo: l’unico a non arrendersi – come non manca di fargli pesare il figlio Nino interpretato da Beppe Fiorello – né a un mestiere che non rende più, né agli acciacchi dell’età, è Ernesto, settantenne testardo e burbero che vuole continuare per la sua strada, anche per non far demolire il peschereccio del figlio scomparso in mare. Nella famiglia protagonista, dalle evidenti ascendenze verghiane, si confrontano tre generazioni, quella del suddetto nonno, quella dello zio Nino e della vedova Giulietta, e del figlio ventenne, Filippo. Alla rocciosa solidità del tradizionalismo di Ernesto si oppongono i personaggi di Nino e di Giulietta: il primo è essenzialmente un superficiale, alla spasmodica ricerca di guadagno, mentre la donna vuole offrire più possibilità e un futuro diverso al figlio. Nel mezzo vaga confuso proprio Filippo che, non sapendo cosa fare, aiuta il nonno e se ne sta per i fatti suoi, «bloccato» come dice lo zio. Quando Ernesto fa salvare alcuni africani rimasti in mezzo al mare su un gommone, si capisce come non sia solo depositario di una stereotipata saggezza ma di un senso morale in via di dissolvimento. L’etica del marinaio che non lascia nessuno in mare è ciò che lo spinge ad aiutare quei disperati, nonostante i problemi che ne seguiranno (cioè il sequestro del suo peschereccio).
I toni di «Terraferma» sono quelli di una favola realista, del racconto morale-didascalico: quasi strutturalmente soffre di una scrittura votata a delle affettazioni stereotipiche, con personaggi caratterizzati in base alla funzione che devono svolgere nella narrazione; basti pensare al ruolo della madre (la comunque brava Donatella Finocchiaro) che, inizialmente si mostra severa col figlio e dura con la clandestina che aiuta a partorire, per poi costruire con lei un prevedibile rapporto di sorellanza tra donne e madri. Anche le stesse forze dell’ordine, carabinieri e finanzieri (il cui comandante è interpretato da un Santamaria dallo strano accento settentrionale), sono metafora d’uno Stato in guanti bianchi, presente fisicamente ma assente in senso politico e morale. Con l’arrivo dei clandestini, Crialese sembra anche voler offrire uno spaccato sinottico delle varie realtà, persino etnologico, considerando come rivolta direttamente allo spettatore la sequenza della riunione dei pescatori, verosimilmente coi veri pescatori dell’isola, che si chiude con la verità storica e personale di uno dei più anziani che spiega «l’antica legge del mare». Purtroppo però, nel complesso, l’autore perde il polso del racconto che va disperdendo la propria tensione in scontate sviolinate sentimentali, col solo Filippo a fare da trait d’union tra prima e seconda parte: la sua ribellione nel finale è un modo personale di incontrarsi con «l’altro» ed evolversi umanamente.

Girato a Linosa, anche se non viene mai menzionato tale nome ed è sottinteso il riferimento agli sbarchi lampedusani, l’isola è protagonista tanto quanto i personaggi, che la definiscono come uno scoglio «‘ntu mezzu u’ mari». A partire dal bell’incipit che si conclude con il peschereccio tirato a secco, con un’inquadratura dal basso e gli stridenti ruomori metallici che zoomorfizzano l’imbarcazione, ricordando una balena spiaggiata, sono molti i momenti alti che confermano quello di Crialese come uno degli sguardi più personali e particolari del nostro cinema; è intenso il suo rapporto col mare: liquido amniotico pieno di vita, bacino trasparente, oscuro viluppo d’acqua. Scelgo tre momenti distinti: la parentesi edonista del giro turistico con Fiorello showman, gara di tuffi, e in sottofondo «Maracaibo»; Filippo e la turista milanese che, facendo un giro notturno in una barca «presa in prestito», si ritrovano in mezzo a dei naufraghi disperati che cercano di salire a bordo: qui Crialese compone un dinamico gioco d’ombre e di dettagli, rendendo la scena, molto drammatica, quasi orrorifica e carpenteriana; infine, quel rallentamento dei frame che disegna il mare come un’abissale superficie frastagliata e la barca come una navicella puntata verso l’ignoto.

 

 

 

Antonio Jesús

Profesor de Italiano en la Escuela Oficial de Idiomas de Málaga

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