B2. ITALIANITÀ
PER COMINCIARE….
Italianità s. f. [der. di italiano]. – 1. L’essere conforme a ciò che si considera peculiarmente italiano o proprio degli Italiani nella lingua, nell’indole, nel costume, nella cultura, nella civiltà, e sim.: i. di un modo di pensare; scarsa i. di un costrutto sintattico. 2. Più com., l’essere e il sentirsi italiano; appartenenza alla civiltà, alla storia, alla cultura e alla lingua italiana, e soprattutto la coscienza di questa appartenenza.
Giulio Questi –Cosa vuol dire essere italiani?
Erri de Luca -Essere italiano vuol dire…
https://italiano-bello.com/it/amo-litalia-it/tradizioni/festa-della-liberazione/
Che cosa si intende nel mondo per italianità?
Che cos’è l’italianità? Il marchio di una nazione può essere analizzato attraverso molte caratteristiche diverse e classificabili, a grandi linee, in associazioni mentali, sensoriali, emotive e razionali. Stando ad alcuni studi, la decomposizione semantica di queste categorie mostra alcune specifiche del marchio Italia (Guerini, 2002):
a.Sensoriali: arte, cultura, cibo, moda, automobili
b.Emotive: vacanze, bel tempo, buon cibo, bellezza, amicizie
c.Razionali: linguaggio, storia.
Questi elementi caratterizzano esplicitamente il concetto implicito di italianità. Si possono riassumere in simpatia, amicizia, bellezza, divertimento, piacere, e sono molto diversi non solo da quelli tedeschi (perfezione, solidità, qualità, non amicizia, affidabilità), ma anche da quelli francesi (arroganza, eleganza, servizi pubblici efficienti, ma anche moda, cibo e vacanze ovviamente). Come ogni concetto complesso, quello di italianità è rappresentato mentalmente da un insieme di immagini, dette anche exemplar, che corrispondono a una costellazione di attributi. Per esempio immagini di Ferrari, Venezia, Versace, Cappella Sistina insieme a pizza, pasta, bagnino spassoso, Barolo, spiaggia assolata, possono essere recuperati nella memoria a lungo termine per rappresentare il concetto complesso di italianità.
Come si vede, l’italianità è composta da immagini di prodotti insieme ad entità antropologiche, naturali e culturali. Cosa interessante, questo concetto può influenzare ricorsivamente, in un circolo perverso o virtuoso, la valutazione e la rappresentazione degli stessi prodotti. E può anche cambiare il concetto d’insieme con un processo dinamico, instabile. L’effetto dell’italianità sulla valutazione della produzione italiana è dimostrato da numerosi studi (Dubois e Paternault, 1997; ICE, 2004; Fondazione Rosselli, 2006; Università Bocconi, 2007). Per un campione internazionale, a caratterizzare il prodotto italiano sono (Dubois, and Paternault, 1997):
Stile: primo nel mondo
Design: primo nel mondo
Rifinitura: seconda nel mondo dopo la Francia
L’Italia è percepita come debolissima in tecnologia, resistenza, affidabilità, e nella media quanto a qualità, valore rispetto al prezzo, assistenza, prezzo.
La valutazione rifletta con precisione i dati economici della nostra bilancia commerciale e del valore aggiunto. Il rapporto COTEC sull’innovazione del 2010 indica che l’Italia è molto competitiva nel campo dell’innovazione «soft» e delle esportazioni di Cibo e vini: eccedente commerciale 4 miliardi e valore aggiunto 19 miliardi; Abbigliamento e moda: eccedente commerciale 22 miliardi, valore aggiunto 26 Mobile: eccendente commerciale 12 miliardi, valore aggiunto 16
L’Italia è prima al mondo nel commercio di tessile, abbigliamento, pellame e scarpe.
Tra il 2009 e il 2010, i dati ICE delle esportazioni italiane negli Stati Uniti mostrano un miglioramento del Made in Italy.
L’italianità sembra influenzare gli elementi di eccellenza percepiti nei prodotti italiani, e la percezione spinge il consumatore all’acquisto di quello che chiamiamo il «Made in Italy». Il quadro fin qui è molto ottimista, ma ci sono problemi.
E’ vero che il «Made in Italy» sembra tuttora competitivo, ma la domanda è la seguente: la competitività nasce dall’esser fatto in Italia o da altro? Se consideriamo il «fare» nel senso letterale, la realtà è già diversa. Molti prodotti sono solo progettati in Italia e realizzati altrove per svariati motivi, legati principalmente ma non esclusivamente ai costi e alle relazioni industriali. Una quantità crescente non è più «Made in Italy» e la situazione potrebbe quindi far pensare che ad attirare davvero il consumatore sono i prodotti pensati, inventati, concepiti, progettati ecc. in Italia.
E’ il famoso know-how o conoscenza implicita dei designer italiani, il risultato di secoli di perizia, talenti artigianali, tradizione estetica e abilità pratica che fanno dell’Italia un paese unico. Potremmo aspettarci quindi che la condizione necessaria per identificare l’italianità di un prodotto è che sia pensato in Italia. Questo darebbe all’Italia un vantaggio rispetto alla Germania la cui attrattiva è profondamente legata a un modo di produzione più difficile da delocalizzare in quanto basato sul territorio. Vale a dire che mentre il consumatore è disposto ad accettare che un prodotto italiano sia realizzato altrove, l’affidabilità, la robustezza, la solidità e la sicurezza evocate dal marchio Germania sono invece legate alla produzione di per sé. E’ molto più difficile che un consumatore accetti come tedesco un prodotto realizzato per esempio in Africa.
A questo punto si pongono altre domande. «Pensato in Italia» è una condizione veramente necessaria o soltanto sufficiente? Esistono altre condizioni più fondamentali perché il consumatore si rappresenti un prodotto come italiano e ne venga attratto?
1.La realtà pare rispondere «sì, esistono altre condizioni», Purtroppo, sappiamo che nel mondo cresce il tasso di prodotti che si fingono italiani e non sono né fatti né pensati in Italia. In molti paesi, come la Cina, per attirare i consumatori basta apporre un marchio dal nome italiano, anche se non corrisponde ad alcuna griffe famosa. Oppure basta progettare una campagna di comunicazione e di marketing che colleghi i prodotti a qualche aspetto dello nostro stile, o vita quotidiana, territorio, patrimonio culturale, antropologia, comportamenti. Un esempio locale, ma significativo, è quanto accaduto nella ristorazione a New York. Un numero crescente di cuochi americani hanno un finto ristorante italiano. Il nome è italiano, ma per la maggior parte delle ricette e dei prodotti, la cucina non lo è. Eppure il consumatore crede che si tratti di autentici ristoranti italiani. Fatto interessante, non è successo anni fa quando una precedente generazione di cuochi americani avevano adottato e interpretato ricette francesi, chiamandole New American Cuisine. Da queste considerazioni emerge che la condizione necessaria per innescare una rappresentazione mentale di italianità non è il luogo della produzione o della concezione, ma quello del comportamento. Nel senso che il prodotto è collegato a un atteggiamento, al popolo, allo stile, alla storia, alla terra, alla vita sociale ecc. dell’Italia.
Qualcuno si chiederà com’è possibile che consumatori razionali cadano in una trappola simile. Che siano disposti ad acquistare qualcosa di simbolicamente legato all’Italia, sebbene il produttore non sia italiano, e il prodotto non sia né pensato né realizzato nel nostro paese.
La risposta è che quel consumatore razionale non esiste. E’ un mito assiomatico e aprioristico dell’economia neoclassica. In passato le scienze cognitive lo hanno contrapposto al modello empirico di un consumatore cognitivo, che cade in trappole cognitive, pregiudizi argomentativi, giudizi irrazionali, ed è spinto soprattutto da processi psicologici consci ed espliciti. Il modello è ormai superato dalla nuova teoria del consumatore emotivo. Come Daniel Kahneman aveva sottolineato nella sua conferenza in occasione del premio Nobel, la mente ha due sistemi diversi: il sistema 1 o mente ragionante, è conscio, seriale, lento ed esplicito, mentre il sistema2 o mente intuitiva è inconscio, parallelo, veloce e implicito. Nella presa di decisione prevale la mente intuitiva, legata alle emozioni e ai sentimenti. La teoria del consumatore emotivo è confermata dall’imaging per risonanza magnetica funzionale nelle ricerche di neuro-economia, e anche dalla teoria di Paul McLean sullo sviluppo filogenetico del cervello. Il neo-cervello (la corteccia comparsa con l’essere umano, e responsabile delle attività razionali e coscienti) e il paleo-cervello (strutture subcorticali come l’ippocampo, comparsa nei mammiferi e responsabili della memoria e di altre attività cognitive elementari) sono per lo più superati nelle decisioni rapide dall’archeo-cervello (l’amigdala e il sistema limbico apparso con i rettile e responsabile del comportamento emotivo). Negli ultimi anni, le scienze cognitive hanno anche sostituito alla teoria dualista della mente una mente unificata in cui elementi emotivi e cognitivi sono fortemente integrati.
Per tornare ai prodotti italiani, la teoria del consumatore emotivo spiega bene come mai l’attrazione sia innescata da un nesso simbolico con l’italianità, in assenza di ogni legame con una produzione o un design italiano. Consciamente, razionalmente, il consumatore sa che il prodotto non è italiano, ma emotivamente, inconsciamente prova la sensazione contraria. Perciò il nome del marchio, la comunicazione, il marketing associati all’italianità rischiano di prevalere.
Se è davvero così, è impossibile neutralizzare il fenomeno, l’italianità non è una nostra proprietà esclusiva e le sue esternalità positive possono essere sfruttate da tutti. Un proibizionismo che cerchi di impedire l’uso dell’identità italiana da parte di aziende o di iniziative straniere (per esempio l’inutile tentativo di stabilire criteri di certificazione per la cucina italiana all’estero) è uno spreco di tempo e di soldi. È giusto fare la guerra ai prodotti contraffatti, ovviamente, anche se non sarà mai vinta. Ma l’unica soluzione per il successo dei prodotti italiani nel mondo sta nell’investire in ricerca e sviluppo e nell’aumentare il tasso di valore tecnologico aggiunto. Soltanto l’unione di tecnologia e design può sconfiggere una competizione ingiusta.
CANZONI:
FRANCESCO DE GREGORI
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